Nuovo Amico lancio podcast SILOS di Tito Danti
Silos
Un pesarese a Trieste sulla Rotta balcanica
Sta per partire un nuovo podcast settimanale dal titolo Silos, a cura di Tito (Stefano) Danti. Per scoprire di cosa si tratta lo abbiamo incontrato.
L’autore è cresciuto nella comunità parrocchiale del Duomo di Pesaro. È stato maestro elementare e per 27 anni ha insegnato presso gli Istituti di pena di Fossombrone e di Villa Fastiggi. Durante l’esperienza in carcere è nata l’idea di aprire un centro di accoglienza per persone detenute, Casa Paci. “Successivamente -dice Tito- mi sono dedicato all’incontro con persone straniere tramite Refugees Welcome, ospitando anche alcuni di loro a casa mia e continuando a seguire il loro inserimento nelle famiglie di Pesaro”. Da sette mesi vive a Trieste, dove continua la sua attività di volontariato in mezzo ai migranti che arrivano dalla Rotta balcanica.
Come nasce l’idea di raccontarti in un podcast del Nuovo Amico?
Durante i primi tre mesi della mia esperienza triestina gli amici mi chiedevano di raccontare, e l’ho fatto mandando loro su Whatsapp dei report settimanali. Il podcast è la prosecuzione del racconto. Senza filtri e in presa diretta. È la mia visione delle cose. Non è una analisi sociologica o politica. Il taglio è quello legato all’esperienza dell’incontro tra umanità diverse.
Il podcast che proponi si intitola Silos: perché questa scelta?
Il Silos è un edificio abbandonato e fatiscente che si trova a Trieste tra la stazione ferroviaria e quella delle autocorriere. È una struttura che fino a qualche mese fa era occupata dai tanti migranti che arrivavano qui attraverso la Rotta, in attesa di entrare nel circuito statale dell’accoglienza a cui avevano diritto come richiedenti asilo in Italia. Nel Silos, in condizioni disagiate, senza luce e acqua, infestato di topi, vivevano fino a 400 persone. Nel giugno 2024, in occasione dell’arrivo del Presidente della Repubblica e del Papa per la Settimana sociale dei cattolici, la struttura è stata sgomberata, senza però trovare una soluzione al problema.
Oggi il Silos è quindi dismesso
Formalmente sì, ma nella sostanza è rimasto: i nuovi migranti che arrivano a Trieste occupano spazi molto simili, nelle vicinanze del Porto Vecchio.
Come mai ti sei trasferito a Trieste?
Sono arrivato per collaborare con i volontari dell’associazione Linea d’ombra, che nella piazza davanti alla stazione, Piazza della Libertà, si occupa della primissima accoglienza dei neoarrivati a Trieste e gestisce anche una scuola di italiano all’interno di un centro diurno molto frequentato dai migranti. Qui tutti i giorni facciamo lezione di lingua italiana.
Come è organizzato il Centro diurno?
È gestito dalla comunità triestina di San Martino al Campo, fondata da don Mario Vatta, in collaborazione con Diaconia Valdese, ICS (Consorzio italiano di solidarietà), DonK Humanitarian Medicine, IRC (International Rescue Committee), ASCS (Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo), oltre al contributo dei volontari di ResQ, una ong impegnata nel soccorso ai naufraghi nel Mediterraneo.
Di che nazionalità sono le persone che incontri?
Principalmente afghani, pakistani, bangladesi, nepalesi, oltre a tutta l’etnia curda (Siria, Iraq, Turchia e Iran). Per dialogare con loro presso il Centro ci sono mediatori culturali, mentre a scuola usiamo principalmente l’inglese.
Quali sono i numeri della scuola?
Nei mesi estivi le rotte balcaniche sono più percorribili e così arriviamo fino a 15 studenti al giorno. Nei mesi invernali il flusso scende sotto le dieci persone.
Quanti volontari si trovano?
Una decina per la scuola: alcuni triestini e parecchi studenti universitari. Tutte le altre attività, invece, soprattutto quelle in Piazza della Libertà, vedono un numero molto alto di attivisti, che vengono anche da altre città.
In questi sette mesi qual è stata la cosa che ti ha maggiormente impressionato e spinto a rimanere?
Da una parte il fatto che la risposta istituzionale all’accoglienza dei richiedenti asilo mi sembra non solo insufficiente, ma a volte inutilmente crudele: le persone che arrivano vengono sottoposte a lunghi tempi di attesa e la loro presenza deve essere in qualche modo resa scomoda, come deterrenza. Dall’altra parte l’incontro con loro crea dei legami e mi trovo a vivere dei rapporti di un’intensità umana così profonda che non riesco ad interrompere.